Il premio letterario nazionale “Scrittura fresca” ad un’alunna del liceo Salutati

Posted by on 25 Maggio 2018

Lo scorso 19 maggio, presso il Teatro Rossini di Pontasserchio alla presenza del Sindaco Sergio Di Maio, ha avuto luogo la cerimonia di premiazione del Concorso Letterario Nazionale “Scrittura Fresca”, indetto dall’associazione sociale e culturale “Pontasserchio e dintorni” e giunto alla sedicesima edizione, che raccoglie racconti provenienti da tutta Italia. Nato con l’intento di riaccendere il piacere della scrittura, ha previsto una sezione speciale per la scuola di ogni grado, con premi utili all’acquisto di materiale didattico.

Al primo posto assoluto, con il miglior racconto delle scuole medie superiori, si è posizionata la studentessa Micol Bartoletti frequentante la I C del liceo scientifico “Salutati” di Montecatini Terme, che nel suo racconto “Il coraggio di voltare pagina” ha voluto creare un’interessante mise en abyme che la catapultasse come personaggio della sua stessa storia. Ad applaudirla durante la cerimonia erano presenti i suoi compagni e la sua docente di lettere.

Il responsabile del Premio, Mario Puccetti, ha dichiarato che questa edizione, con ben 74 racconti pervenuti da tutta la Toscana e da oltre i confini regionali, si è distinta per qualità, mentre il vicesindaco Franco Marchetti ha sottolineato l’importanza per il Comune di sostenere questo tipo di eventi che permettono alle giovani generazioni di esprimere con la scrittura disagi e speranze della loro età e del nostro tempo, pieno di inquietudini e di contraddizioni di una società in continuo movimento.

Andrea Batistoni, componente della giuria e scrittore per passione, ha sottolineato che dietro i lusinghieri risultati e l’alto livello complessivo dei racconti c’è il lavoro degli insegnanti, che hanno permesso ai ragazzi di raggiungere una correttezza formale e una ricchezza di vocaboli non consueta.

Sonia Bronzini, altra giurata del premio e scrittrice, afferma di essere rimasta colpita dal linguaggio e dalla fantasia usati dai giovani.

A Micol sono stati consegnati un attestato, una targa e un assegno di 200 euro da utilizzare per un’iniziativa didattica da condividere con il resto della sua classe.

Brava Micol, la tua penna ci possa regalare altre storie belle come quella che inseriamo qui di seguito.                                                           

                                                                                                                      (Lorena Rocchi)

 

 

Il coraggio di voltare pagina

“Correva veloce tra le auto in coda, indifferente ai richiami dei clacson o al rosso ammonitore del semaforo. Le gambe magre minacciavano di non sostenere più il peso del corpo e i riccioli scuri erano schiacciati sulla fronte madida di sudore, eppure un senso di leggerezza, quasi di benessere, lo faceva proseguire ogni volta che sembrava arrancare. Non pensava alle abitudini né alla vita che si lasciava alle spalle, ma soltanto a correre. Niente avrebbe più potuto distoglierlo dalla sua fuga, se non lei. Vi aveva appena rinunciato, aveva rinunciato proprio a lei che lo aveva capito, a lei che lo aveva appoggiato, a colei nei cui occhi apparentemente glaciali, aveva visto racchiuse le onde accoglienti del mare in estate. Eppure proprio lei, con il suo silenzio, gli aveva fatto capire di essere sul punto di passare ad un traguardo successivo e così lo aveva indotto ad inseguire la propria felicità, nonostante questo comportasse la loro separazione. Rammentava tutto ciò che in quel bigio corridoio si erano promessi, con un gioco complice di sguardi, compreso che si sarebbero rincontrati, un giorno, quando anche lui, forse, sarebbe stato pronto ad andare avanti, senza guardare più al giudizio della gente.”

Così suonava l’ultima nota del romanzo che stavo leggendo, ma, prima che mi decidessi a chiudere il volume per riporlo con cura nella libreria, un ultimo richiamo d’inchiostro, stampato sull’ angolo inferiore della carta bianca, attirò la mia attenzione:

Abbi il coraggio di voltare pagina

Una frase senza punto, senza fine.

Ricordo che mi soffermai molto a riflettere sul significato che avrei potuto attribuirle, ma non lo capii davvero, fin quando quelle parole, profondamente semplici, divennero la chiave che mi avrebbe fatto uscire dalla gabbia che io stessa mi ero costruita.

 

Dicono che l’adolescenza sia l’età più bella, quella che ricorderemo per sempre con il sorriso, densa di amici, feste, avventure, di primi amori da non scordare e di nuove esperienze. Ovviamente sono solo gli Altri ad affermarlo, quelli che fanno parte del gruppo in cui non c’è spazio per i ragazzi come me.

Noi siamo gli esclusi, quelli che possono assaporare le sensazioni che gli Altri provano quotidianamente, soltanto per la durata di una canzone, di un film, di un libro. Siamo dei sognatori, per questo amiamo la notte; a volte ci capita anche di chiudere le persiane in pieno giorno, per reinventare un mondo nostro nel buio, che scompare ogni singola volta che riaccendiamo la luce. Li vediamo sorridere nelle foto sui social e invidiamo la loro perfezione, il loro modo di essere sempre adeguati, al contrario di noi, impacciati, titubanti e totalmente insicuri.

I nostri gruppi non si incontrano, al di fuori della scuola, dove cerchiamo di diventare invisibili, di nasconderci nei nostri rifugi, fatti di testi scolastici e di corridoi deserti. Gli Altri non si accorgono della nostra presenza, finché non hanno bisogno di superare una verifica. A quel punto le rette parallele che seguono i nostri cammini si intersecano, per ritornare un attimo dopo sul tracciato precedente.

Ogni volta ci illudiamo che sia diverso, ma puntualmente veniamo delusi. Siamo troppo ligi per ribellarci, troppo arrendevoli per lottare, troppo timidi per urlare al mondo la nostra presenza. Ci convinciamo che sia solo una situazione temporanea, che dopo la tempesta arriverà il sereno anche per noi.

Sarà anche così, ma per ora, al di fuori dei vetri appannati dell’auto di mia madre, non riesco a scorgere altro che le nuvole scure.

Le mie giornate si ripetono uguali, come fossero la stessa. La voce di mia mamma è il primo rumore che sento al mattino, ormai da sedici anni. Se fossimo dei contadini, il suo canto farebbe sfigurare il gallo, perché già dalle prime ore del dì, il concitato ritmo delle sue parole assume un timbro deciso, che non accetta repliche. Segue a ruota la sfida tra mio padre e me, per determinare la supremazia sul bagno. Lui ha sempre la meglio, per questo nell’attesa apro le ante azzurre dell’armadio e mi siedo sul letto, fissando i vestiti e scacciando l’idea di presentarmi in pigiama. Se anche così facessi, nessuno lo noterebbe. D’altra parte per quale ragione dovrebbero guardare proprio me? Non ci sono compiti questa settimana.

Mia mamma, però, è dell’idea che io debba farlo per me stessa. Perciò cerco di apparire al meglio, di sorridere, per lei. Faccio la doccia ed accendo il phon, non tanto per asciugare i miei corti ciuffi castani, ma per rilassare le orecchie con la calda melodia, prima che la mia dolce dittatrice di casa spalanchi la porta per l’aggiornamento orario. Non indosso mai capi troppo colorati, a dire il vero il mio guardaroba oscilla tra il nero ed il blu scuro.

Una volta messi gli occhiali, la nebbia, che ha sfocato i contorni fino ad allora, scompare, mostrandomi la realtà per quella che è.

Nei giorni di pioggia come questo, mi soffermo a seguire le lacrime che si rincorrono sul finestrino. Sembrano proprio i ragazzi dell’altro gruppo, perché, come loro, si cercano, si uniscono, si separano, per poi rincontrarsi di nuovo. Io sono, invece, una di quelle gocce che non trova un vetro su cui confrontarsi con le altre, ma cade semplicemente a terra, dimenticata in qualche crepa dell’asfalto asettico.

Giunta nel piazzale antistante la scuola, dopo aver salutato mia mamma, mi attende un’altra giornata anonima. Al suono della campanella fuggo all’esterno, come se i miei polmoni cercassero aria fresca per respirare. Poi, come sempre, la solita Panda gialla, che costituisce la mia unica nota di colore, mi scorta a casa. Il pranzo, i compiti, la cena. Ogni azione fa parte di quel rigido schema chiamato routine. Chiusi gli occhi, in men che non si dica ritorna il giorno e tutto ricomincia da capo, rimpiazzando le speranze notturne con i problemi quotidiani.

Il mondo intorno a me gira velocemente, lasciandomi indietro, per questo ho dovuto cercare il mio punto fisso. E’ come nell’ora di educazione fisica, quando devo stare in equilibrio su una gamba soltanto e mi appiglio all’immobilità di un segno su una colonna o sul pavimento, per trovare la stabilità di cui ho bisogno.

 

Non sono stata io a trovarlo, piuttosto è stato lui a trovare me. Ho un ricordo chiarissimo di quel giorno. Come potrei dimenticarlo! Era ricreazione ed io vagavo per i corridoi del plesso scolastico, diretta al cantuccio indisturbato, dove ero solita rifugiarmi per leggere le vicende narrate da autori sconosciuti: il ripostiglio dei bidelli. Aperta la porta, un paio di occhi verdi, come il parco vicino casa dove giocavo da piccola, hanno incrociato i miei e poi hanno attentamente indagato il volume custodito dalle mie mani. Non sembrava uno di noi. I capelli mossi neri gli ricadevano morbidi sulla fronte corrucciata, le labbra rosate semiaperte indicavano chiaramente stupore e sorpresa e le sue dita affusolate ticchettavano nervosamente sulla copertina del libro che stringeva gelosamente. Ritornata ai suoi occhi e, animata da non so quale coraggio, gli ho intimato di andarsene. Probabilmente quello che è giunto alle sue orecchie non è stato quello che io ero sicura di aver detto, ma si deve essere trasformato in un sussurro, e neppure così deciso come mi aspettavo, dal momento che lui si è messo a ridere, non con cattiveria o malizia, piuttosto semplicemente divertito dalla situazione. Io l’ho fulminato con lo sguardo, o almeno ho tentato di farlo, ma non sono riuscita a resistere a lungo alle sue fossette, che mi invitavano a sorridere con lui. Inspiegabilmente mi sono materializzata nella stanzetta, chiudendo fuori dalla porta il resto del mondo, o meglio, il resto del mondo tranne lui. Si è spostato quanto bastava per farmi dello spazio tra lui ed un secchio ricolmo di acqua e di chissà quale prodotto per i pavimenti. Mi sono seduta goffamente, urtando quella miscela e facendo muovere pericolosamente la schiuma azzurrognola sulla superficie. Siamo rimasti in silenzio, fianco a fianco, persi nelle rispettive letture. Solo il trillo improvviso della campanella ci ha riportato alla realtà. Chiusi i nostri libri, ci siamo alzati e, arrivato il momento di rientrare in aula, ho realizzato che ricciolo corvino era un mio compagno di classe. Come avevo fatto a non accorgermene prima? La risposta è arrivata subito, quando l’ho visto nascondere il suo libro dietro la schiena, al sentirsi chiamare per nome da parte di uno degli Altri. Lo ha stupidamente fatto scivolare nello zaino, prima di essere risucchiato dai suoi amici.

Il ragazzo che avevo conosciuto pochi minuti prima non avrebbe permesso a nessuno di sfiorare quelle pagine, troppo fragili, e adesso era lui stesso a non rispettarle e a dissimulare interesse. Così ho pensato che il piacevole incontro fosse stato solo una situazione momentanea, di quelle che si dileguano come un profumo buono al soffiar del vento.

Al contrario di tutte le mie aspettative, il giorno seguente l’ho ritrovato sorridente tra gli spazzoloni e la polvere del ripostiglio.

Da allora non abbiamo più smesso di incontrarci segretamente. Abbiamo continuato a rimanere in silenzio, quasi come se parlare potesse rovinare l’atmosfera che ci eravamo creati.

 

Non siamo amici. Il nostro rapporto è fatto di sguardi, di sorrisi, di gesti. Tra i banchi non interagiamo nemmeno, perché la divisione tra i nostri gruppi è una possente muraglia, indistruttibile ed invalicabile. Perché non posso trovarmi dall’altro lato? Eppure quei venti minuti trascorsi insieme sono gli unici momenti nei quali il mondo si arresta con me. La mia vita procede ripetitiva, ma dalla prima volta che i suoi occhi di smeraldo rassicuranti hanno incontrato i miei, fingo un po’ di meno quando sorrido e metto più interesse nel vestirmi la mattina, per lui.

Sono nel veicolo giallo di mia madre, oggi le nuvole nere non sembrano così cupe. Cammino sola fuori dall’entrata, mi sistemo gli occhiali e mi appresto ad entrare. Ho iniziato ad arrivare in anticipo, non è più tanto orribile questo posto. Adoro studiare da lontano i suoi movimenti, con il passare dei giorni mi sono accorta che assume espressioni diverse quando è con gli Altri: indossa la sua maschera e recita il suo ruolo. Aspetto con trepidazione la campanella  allegra della pausa e mi dirigo, prima camminando, poi correndo, verso il rifugio. Non conosco la ragione, ma questa mattina lui non c’è. Perché non è seduto sulle fredde mattonelle della stanza?

Cerco di non pensarci ed apro il libro, ma sono costantemente distratta dalla sua assenza. Esco nel corridoio e il mio naso sbatte su qualcosa, o meglio, in qualcuno. Indietreggio ed alzo la testa per raggiungere il suo sguardo. Per la prima volta sento il suono caldo e profondo della sua voce e mi sembra impossibile che debba cozzare con il gelo delle sue parole: preferisce lasciare il nostro rituale, dal momento che i suoi amici non si sono bevuti le scuse che ha recitato quando hanno trovato “Cime tempestose” sotto il suo banco.

Lance acuminate trafiggono il mio cuore.

 

“Andrà meglio domani”: sono due settimane che me lo ripeto. Vedo la sua figura, il personaggio che si è creato o che qualcuno ha creato per lui, ma non vedo ciò di cui ho bisogno in lui.

Tutto è tornato grigio come in origine. Passa il tempo e io sono sempre più distante. I miei genitori mi hanno addirittura preso un appuntamento con uno psicologo, che mi ha riempita di inutili frasi da manuale.

Sdraiata sul letto, con le persiane sbarrate, fisso il vuoto, incapace di fantasticare. Poi, un fascio di luce improvviso illumina la libreria, un volume in particolare.

Tutto è più nitido adesso: devo dare una svolta alla situazione, come gli ho fatto capire nel finale del libro, devo avere il coraggio di voltare pagina, di andare oltre. Ed ora che ci rifletto, tutto il mio dolore è insensato, o almeno non deve essere destinato a me, ma a lui. In fondo, era lui quello costretto a recitare un ruolo, a mentire, a dire ciò che non pensava, solo perché è quello che gli Altri volevano sentire. Era lui ad avere tutto prestabilito, imprigionato tra le righe di un romanzo già edito e in cui io stessa ho rischiato di rimanere intrappolata. Sono contenta che mi abbia detto che ci incontreremo di nuovo, quando anche lui sarà pronto per andare avanti, senza guardare al giudizio della gente.

Tuttavia ho ben chiaro di poter ancora inventare i capitoli della mia storia, per dipingere a colori vivaci la mia vita.

 

Mi vesto, stavolta per me stessa. Indosso una maglietta rossa ed un paio di jeans chiari. Ho avuto il tempo di truccarmi, perché ho vinto la gara con papà. In auto, il sole luminoso quasi acceca mia madre alla guida. E’ una bella giornata e sono finalmente felice.

Io vado avanti, godendomi ogni singolo passo e aspettando che lui sia pronto a liberarsi da quella gabbia che gli impedisce di muoversi. Pensavo di essere al di là delle sbarre e invece le osservavo già dall’esterno, mentre adesso sono finalmente pronta a voltare l’ultima pagina del mio libro, per incontrare la prima della mia nuova vita, da persona, e non più da personaggio.

Perché, a volte, è solo una questione di punti di svista.

 

 

 

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